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Lugano
  • Scrittura impazzita
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Elisabetta Gut (1934) nasce a Roma in una famiglia numerosa, sei sorelle e un fratello, da padre ebreo svizzero e da madre cattolica italiana. Con l’incombere della guerra, Elisabetta, si ritrova, ancora piccolissima, insieme ai suoi fratelli e ad altri bambini svizzeri, con un cartellino appeso al collo, seduta su un treno diretto a Zurigo, organizzato dalla Pro Joventute. Dopo un periodo in collegio, Elisabetta viene ospitata dalla famiglia di un ferroviere, dorme da sola in una soffitta e dei suoi sette fratelli riesce a vedere solamente Rosa Bianca. Le due sorelle passano insieme i fine settimana nei musei zurighesi, fra dadaisti, surrealisti e astrattisti: il suo primo amore si chiama Paul Klee.

A diciasette anni Elisabetta decide di andare a vivere nell’istituto delle suore Orsoline di Roma, dove si contraddistingue per la sua caparbietà e per la sua intelligente ribellione, ma, soprattutto, viene ammirata per le sue abilità artistiche. Nel 1953 s’iscrive all’istituto d’Arte di Roma e in seguito alla Scuola di nudo dell’Accademia di Belle Arti, concludendo la sua formazione nel 1956. Le sue creazioni artistiche seguono inizialmente un filone pittorico postcubista, ma fra i molteplici disegni, pastelli e acquarelli che produce, si intravede già quella linea grafica di scritture antiche e orientali, quel segno “come inchiostrato” che caratterizzerà il suo operato futuro.

L’incontro che segnerà la sua svolta e il suo esordio come artista è quello con Felice Casorati, ancora una volta nel 1956: poco più che ventenne, Elisabetta si reca alla villa di Pavarolo, nella campagna torinese, dove il pittore novarese l’accoglie per osservare le sue opere. Subito dimenticato l’iniziale scetticismo per quella giovanissima pittrice, Casorati ne rimane colpito e nell’autunno dello stesso anno organizza la prima personale di Elisabetta, alla Galleria d’arte Cairola di Milano. Due anni dopo si tiene, sempre a Milano, presso la Galleria Lo Zodiaco, la sua seconda personale, che riscuote un notevole successo, con la vendità della metà delle opere esposte. Con l’avvento degli anni Sessanta l’artista romana si immerge, concentratissima, nella sua ricerca creativa, alterando sistematicamente i materiali di supporto, incidendo le tele e scombinando i piani delle superfici con l’utilizzo dei più disparati ornamenti (pizzi, ricami, mostrine militari).

In questi anni le opere di Elisabetta raggiungono quella libertà espressiva e quell’ironica ribellione che caratterizzano la loro stessa autrice. Nascono unioni audaci, spesso tramite collage e assemblage di elementi naturali e di elementi culturali: rami, fiori, fili e gusci armonizzati insieme a note musicali, poesie, calligrafie. In particolare l’utilizzo del filo è da lei utilizzato per la prima volta, oltre che come elemento di rilegatura, anche come simbolo di cancellatura (che in realta per Elisabetta è più un “trattenere le parole” che cancellarle) e al contempo come pentagramma. Si intensificano in questi anni le mostre che la vedono protagonista, fra cui ricordiamo quelle alla Galleria Franzp di Torino (1970), alla Galleria Numero di Roma (1970), al Palazzo dell’Arengario di Monza (1973), alla Galleria Fumagalli di Bergamo (1976), alla Galleria Variazioni di Milano (1977) e al Museo Pignatelli di Napoli (1977). Sono molte anche le mostre collettive che dedicano uno spazio a Elisabetta Gut, fra le più significative vi sono Incontro Sincron di Rimini (1971), a Palazzo del Podestà, curata da Bruno Munari, l’esposizione al Salon des Réealités  Nouvelles, al Musé d’art Moderne di Parigi (1975) e Concreto & Visuale, all’Università di Sidney e di Melbourne (1978).

Sono anche anni di grande impegno civile e sociale per i diritti delle donne: Elisabetta Gut si inserisce pienamente nel contesto femminista romano, costituendo parte del nucleo di Rivolta femminile, gruppo fondato da Carla Lonzi e costituito da artiste e intellettuali italiane e straniere, fra cui Carla Accardi e Simona Weller.

Verso la metà degli anni ’70 si interessa particolarmente al suo lavoro anche Mirella Bentivoglio, che redigerà numerosi testi critici sull’artista romana, invitandola alla maggior parte delle mostre da lei curate.

Fra le molteplici mostre che recentemente vedono protagonista Elisabetta Gut, ricordiamo le più significative: Semi-Segni, alla Galleria Cortese & Lisanti di Roma (2009), Book Without Words: The Visual Poetry of Elisabetta Gut, al National Museum of Women in the Arts di Whashington (2010), Cutting through: the art of Elisabetta Gut, alla Maitland Regional Art Gallery (2012) e La scuola delle cose, presso il Museo delle Genti d’Abruzzo, a Pescara (2019).

Nella primavera del 2019 la Repetto Gallery presenta le sue opere durante la mostra Threading spaces, dedicata a Elisabetta Gut, Franca Sonnino, Maria Lai e Nedda Guidi.